Applausi non richiesti


Applausi, oceano di mani…“: così recita una canzone degli anni Settanta, il cui protagonista rimpiange la sua amata giurando che non c’è ovazione di pubblico in grado di alleviare le sue pene. Lei non è venuta al suo concerto, e non tornerà mai più da lui: “un nodo alla gola” perché “l’amore non c’è”, conclude il brano.

Ora, parlando di applausi, quale gesto più immediato è dato al pubblico per esprimere calore, entusiasmo, ammirazione, gioia -e in definitiva amore-, se non quel battito di mani? Uno scroscio impetuoso, esultante e liberatorio, ma capace di varianti assai meno piacevoli, come quegli applausini avari, timidi e imbarazzati che sottolineano l’esito fallimentare di una performance sfortunata.

Applaudire è un gesto rudimentale: si tratta sostanzialmente di sbattere i palmi delle mani uno contro l’altro, producendo un rumore che può essere misurato secondo stime precise in base all’intensità e alla durata. Le più recenti conquiste tecnologiche hanno portato ad invenzioni utili per la misurazione su base scientifica di questo valore: ci riferiamo qui in particolare a strumenti quali l’applausometro del varietà.

Strumento di aperta manifestazione del consenso, l’applauso si potrebbe definire uno degli scopi ultimi perseguiti da artisti ed ensemble da palcoscenico: è proprio per quell’oceano di mani, in fondo, che si fatica settimane e settimane nel chiuso di una sala prove.

Eppure ci sono applausi e applausi: non tutti infatti sono graditi.

Tralasciando ora la polemica sulla consuetudine tutta italiana di inneggiare ai piloti aerei ad atterraggio concluso, volevamo qui trattare di un fenomeno più controverso, che a qualunque assiduo frequentatore di concerti sarà capitato di sperimentare almeno una volta nella vita.

Sì: stiamo parlando esattamente di quel tipo di applausi. Quelli capaci di portare in sala scompiglio, se non sconcerto. Quelli nati da un innocente gioco di mani inesperte, desiderose soltanto di offrire un tributo ai bravi esecutori. Quelli che partono timidamente ed in maniera isolata (anomalia questa che dovrebbe, a dire il vero, destare qualche sospetto nel plaudente pioniere) e che terminano inevitabilmente in una stroncatura, sepolti sotto ad un coro di: “Sssshhhh!” stizziti e scandalizzati. Chi ha tentato di applaudire probabilmente non sa nemmeno bene il perché di quella stroncatura: l’unica certezza che lo pervade è quella di aver appena commesso un peccato tutt’altro che veniale: di qui l’immediato, profondo ed amarissimo senso di onta sociale. Il colpevole smette istantaneamente di battere le mani, e paralizzato dal gelo che gli scorre improvviso nelle vene, tenta inutili e goffi gesti di scuse, incapace di levarsi dall’impiccio e totalmente traumatizzato dall’accaduto.

Quanti poveri ignari frequentatori occasionali di concerti abbiamo visto sprofondare in questo modo nelle loro poltrone, desiderosi probabilmente di scomparire?

Bene, affinché episodi tanto spiacevoli non debbano ripetersi più, intendiamo offrire qualche utile consiglio a questi volonterosi.

Invece di rimbrottarli con lo sgarbato e altezzoso “Sssshhhh!” dei veterani scandalizzati, ci sembra più costruttivo fornire spiegazioni sulle regole invalse nella prassi esecutiva -ed auditiva- della musica dal vivo. C’è un’unica, fondamentale e universale regola non scritta a riguardo (talvolta qualche direttore d’orchestra timidamente la ricorda, prima del concerto, specie se pensa di trovarsi in presenza di una platea particolarmente disinformata, o per così dire, problematica), ovvero:

“VIETATO APPLAUDIRE TRA UN TEMPO E L’ALTRO”.

Ecco svelato l’arcano. È esattamente questo l’errore che non viene perdonato agli inesperti: applaudire dopo il “Gloria” di una Messa -pur brillante e trionfale- quando mancano all’appello ancora Credo, Sanctus, Benedictus e Agnus Dei. O prodursi in fragorosi e commossi battiti di mani dopo il secondo tempo di un Concerto che non chiede altro che un muto e sospeso silenzio ad accompagnare l’eco delle ultime, flebili note, in attesa dell’esplosione dell’Allegro.

In tutti questi casi, applaudire equivale ad interrompere il discorso musicale: è un pronunciarsi del pubblico a sproposito che rovina l’atmosfera, disturba l’illusione scenica dell’atto, deconcentra gli esecutori e in buona sostanza ammazza la performance. La nostra innata tendenza all’idealizzazione ci porta naturalmente ad immaginare qui una performance di tipo sublime: un’armonia celestiale di suoni che scorrono come avvolti in un’aura sacrale, un’estasi musicale in cui nemmeno un fruscio fuori posto sarebbe ammissibile.

Ma in ogni caso, anche senza voler scomodare il paradiso, perché sempre sulla terra ci troviamo, in ogni caso, dicevamo, applaudire tra un tempo e l’altro è francamente da villani: SSSSHHH!

Gemma Galfano